Sentirsi in guerra, in tempo di pace

Qualche mese fa Livù mi chiese di scrivere sull’omicidio di un giovane avvenuto a Grottaglie quindici anni fa. Di nuovo è stato assassinato un ragazzo, pochi giorni fa, “con piccoli precedenti per rapina e spaccio”, come hanno scritto i giornali, e per mano di un pregiudicato. Questa volta, però, si è generato uno strano dibattito, in cui i giudizi si sono divisi tra la condanna e il dolore da una parte e, dall’altra, il violento “se l’è cercata”, o “due di meno”. Penso sia necessario fermarsi a riflettere.

Il dolore assoluto

La morte di un ragazzo, di un figlio, è il dolore assoluto, scrivevo allora, e fa precipitare chi l’ha amato in un sentimento d’impotenza, d’ingiustizia, e in un insopportabile senso di colpa – che ti tormenta, anche se non hai colpa – per non aver capito prima, o per non aver fatto prima qualcosa che servisse a proteggerlo abbastanza. Se non si riesce a comprendere questo dolore così naturale, e non riusciamo a immedesimarci nelle persone che sono state colpite, vuol dire che stiamo ragionando sotto l’effetto della paura, vuol dire che siamo governati da quel sentimento: come se fossimo in guerra, quando la morte del nemico è vista come propria salvezza. Ma se ci accade qui, in tempo di pace, vuol dire che qualcosa non sta funzionando dentro e intorno a noi.

Gli effetti della paura

Dentro di noi: la paura ci mette sulla difensiva, blocca la nostra capacità di comprendere, riduce la nostra umanità, annulla la fiducia nella civiltà che siamo diventati da quando abbiamo smesso di essere cannibali o di andare in giro con la pistola nel cinturone; la paura ci riporta indietro, in uno spazio mentale in cui aumenterà ancora di più, perché essa genera solitudine e sottomissione ad altre forme di violenza, come quando si chiede la “protezione” del mafioso. Fuori di noi: la storia e la cronaca ci insegnano che l’esplosione periodica di fatti violenti è ineliminabile dai contesti sociali, anche i più civili. Ma l’interesse di ognuno di noi è di far avanzare ancora la nostra civiltà, sia sviluppando la capacità di trattamento e contrasto della violenza (il funzionamento delle polizie, della giustizia, del sistema delle pene), sia attraverso l’intervento di aiuto sulle situazioni familiari e individuali “a rischio di devianza”.

È possibile prevenire e curare

Oggi sappiamo con certezza che è possibile evitare che infanzie difficili (quelle dei bambini che manifestano problemi perfettamente visibili a famiglie, scuola, pediatri) si sviluppino in adolescenze problematiche e in problemi cronici dell’adulto, che starà male lui e farà star male altre persone. È possibile evitare la ripetizione di “cronache di morti annunciate” se, anziché rifugiarci nella paura o nella negazione dei problemi reali, riflettiamo sul fatto che di fronte a bambini in difficoltà e a famiglie che non riescono a reagire, perché non comprendono o non ce la fanno:

  1. il sistema dei servizi sociali e sanitari (terapeutici) annaspa nella riduzione di risorse e d’impegno verso questo tipo di problemi;
  2. gli insegnanti non hanno gli aiuti e i sostegni necessari alla gestione dei casi difficili. Sono questi i problemi comuni che possiamo e dobbiamo affrontare e risolvere.

La morte di un ragazzo, agnello o lupetto che sia, convoca ognuno di noi di fronte alla propria coscienza e ci offre l’opportunità di uscire dal circolo vizioso tra paura e violenza. Per riacquistare la nostra umanità, quella che ci consente di piangere chi muore a diciannove anni e di immedesimarci nelle persone che l’hanno perso, e sviluppare la nostra capacità di stare insieme civilmente.

(Livù, dicembre 2012)

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